L’Archeoclub
di Pescara ha organizzato nel maggio scorso un viaggio nel nord dell’Etiopia
per visitare i luoghi più suggestivi legati alla storia di questo paese, uno
dei più antichi della cristianità, e anche alla storia coloniale italiana della
quale restano ancora tracce significative.
L’articolo
che segue è un mio racconto parziale del viaggio che si è
snodato per centinaia di chilometri da Addis Abeba quasi ai confini con
l’Eritrea.
Denominatore
comune delle regioni attraversate: la grande povertà; bastano due dati: il 40%
degli Etiopi è denutrita e il 60% è carente di acqua potabile.
ETIOPIA: Un paese antico
governato dal fatalismo
Donne, uomini, bambini e animali:
donne con scialli bianchi o variopinti, uomini con un bastone tra le mani che
diventa ornamento o “avvertimento”; bambini di varia età allacciati alle madri,
buoi, capre, asini: è un peregrinare quasi continuo sulle strade dell’Etiopia
che accompagna il nostro viaggio di fine maggio nel nord del paese.
I mezzi di trasporto sono pochini
al di fuori dei centri abitati, la gente cammina ore ed ore per raggiungere la
meta, spesso un luogo di lavoro o un mercato, quando i gruppi si condensano il
peregrinare assomiglia a un esodo.
Ad Addis Abeba, dove inizia e
finisce il viaggio, il traffico è intenso, la gente è frettolosa, una parvenza
di modernità traspare dalla disinvoltura dell’abbigliamento femminile e un
servizio di vigilanza è attivo nelle strade a protezione dei turisti.
A maggio il clima è mite, si
viaggia senza fatica e sull’altopiano, oltre i 3000 metri gli abitanti
indossano più strati per proteggersi dal vento. Gli aratri di legno rudimentali
incidono la terra aspra, il grano viene battuto a mano in un rituale da noi
dimenticato. Nei pressi di Makallè una decina di dromedari adibiti al trasporto
del sale si riposano sofferenti sul ciglio della strada col dorso sbiancato e
consumato aspettando il nuovo carico. La nostra guida nel paese, Andrea,
italiano di origine e “accompagnatore” da oltre 15 anni, racconta quanto siano
importanti i mercati in Etiopia: ad Addis Abeba l’80% della popolazione vi si
reca almeno una volta al giorno per comprare: nei mercati di campagna i
percorsi per arrivarci da casa possono essere molto lunghi e durare molte ore.
Spesso gli uomini restano a dormire
fuori e ne approfittano per imbastire flirt occasionali con donne locali.
La disinvoltura dei rapporti
sessuali, senza precauzioni, fa sì che in Etiopia il livello di contaminazione
dall’AIDS sia ancora molto alto, anche se le autorità stanno facendo massicci
investimenti da qualche anno per combattere il virus. Attualmente più di 7
milioni di individui contagiati dall’AIDS sono sotto trattamento in tutta
l’Africa.
Il fatalismo della gente in
Etiopia non aiuta il cambiamento sociale. “ C’è tanto tempo libero e la gente
dovrebbe lavorare di più - afferma Andrea – tutto qui è visto per volere di
Dio: è un Dio che non ha a che fare con la religione: non c’è iniziativa
privata: <il comunismo – aggiunge- ha indotto questa mentalità nella gente,
abituandola ad essere organizzata dagli altri, dalle razioni alimentari, alla
saponetta, alla carta igienica”.
Anche la Chiesa non sembra fare
gran che per questa povertà che nelle campagne appare senza veli. “ La Chiesa” – ci dice un notabile di Addis Abeba – pensa
ad affittare i suoi beni, pensa ai profitti, ma non fa niente per la gente”.
L’assistenza medica è migliorata:
prima, ai tempi di Menghistu, c’era un ambulatorio ogni 100 mila abitanti, oggi
uno ogni 10 mila. Ma i contadini sono scettici, preferiscono curarsi con
sistemi antichi, non lontani dalla stregoneria e anche per questo la mortalità
è alta.
I diritti delle donne da 4 anni a
questa parte sono rispettati maggiormente a livello ufficiale ma non
attecchiscono abbastanza nella pratica perché resistono le abitudini
ancestrali. Ad esempio il taglio del
clitoride sulle bambine è ora vietato per legge, pena 15 anni di prigione, ma
pochissimi sono i genitori “innovativi” e il rito continua a consumarsi in
silenzio.
Le tradizioni antiche affossano
la ripresa sociale da una parte, ma hanno rafforzato dall’altra il credo
religioso ortodosso. Per il bene della Chiesa anche i più poveri se sono
profondamente credenti, fanno sacrifici economici pur di portare offerte alla
loro comunità. Uno dei pellegrinaggi d’obbligo per un buon cristiano è quello
che porta a Lalibelà. La Mecca Etiope, che prende il nome dal re che la volle
“città santa” tra canyon e montagne e che l’abbellì di almeno dieci chiese
rupestri, considerate ora tra i più grandi monumenti monolitici di tutta
l’Africa. Gli architetti del cristianesimo copto scavarono i monti e
costruirono tunnel nella roccia per offrire luigi di culto che si integrassero
con le viscere della terra e che attirassero fedeli da tutto il continente.
Reminescenze infantili
attraversano la mente. Località come Axum con i suoi obelischi, il Tigray,
Adua, Gondar, sede degli imperatori d’Etiopia nei secoli diciassettesimo e
diciottesimo. E ancora la regina Tayitù, la regina di Saba, l’imperatore Haile
Selassiè, del quale si può visitare la scarna residenza ad Addis Abeba.
Proprio puntando sugli Italiani
nostalgici un commerciante etiope, alla fine del viaggio, cerca di vendere a
caro prezzo volumi malandati del periodo coloniale italiano. “Sono libri
antichi” – dice in un italiano stentato mentre rovista negli scatoloni
ingialliti dal tempo, ma non trova grande seguito.
Per la strada intanto c’è un
rumore di ruspa made in China. I “colonizzatori” dell’edilizia adesso sono in
gran parte cinesi e per gli Etiopi forse anche questo è visto “ per volere di
Dio”.
Antonella Pieroni